“In ultima analisi contiamo qualcosa solo grazie a ciò che di essenziale possediamo”.
C. G. Jung
Bisognerebbe intanto intendersi su ciò che intendiamo per essenziale. Essenziali sono aria, acqua, fuoco per riscaldarci e cucinare, un tetto per ripararci dalla pioggia. Da quel punto in poi, tutto è scelta. O così pare.
I nostri maestri spesso ci parlano di scelta, di sacrificio, di compito esistenziale. Talora lo fanno a tempo e luogo, a ragione. Talora invece proiettano su di noi (tutti proiettiamo, anche noi analisti) i loro valori, le loro scelte. Talora si identificano con noi e cercano, consapevoli o meno, di guidarci, mentre in realtà possono solo accompagnarci nella scoperta di ciò che siamo. Ma tocca a noi il sentirlo. Convinti di cambiare, spesso non ci rendiamo conto che in realtà la strada è una. Hillman cita Picasso che scrive: “Io non evolvo. Io sono”. E lo fa parlando della “ghianda”, di quel germe che non è legato né ai geni né all’ambiente che ci circonda, ma all’imponderabile che chiamiamo anima. Da quel germe, come da quello del grano, noi ci sviluppiamo per diventare quella spiga e solo quella spiga. Ma talvolta, come il capitano Stefano Roi nel Colombre di Buzzati, non sappiamo riconoscere quel che ci dice la parte più profonda di noi.
Parliamo di talento: etimologicamente, questa parola è legata al peso che un uomo può portare. Quindi non ne parleremo nel senso abituale, come di una specifica capacità artistica, scientifica o artigianale, ma come del nostro personale talento, della nostra, sempre come la chiama Hillman, “vocazione”. Una vocazione esistenziale a essere quel germe e poi la quercia di quella ghianda. A essere la nostra storia, il nostro essenziale. Per essere noi stessi combattiamo tutta la vita. Ma spesso, quando quella vocazione non è accettata, combattiamo contro di essa, come Giacobbe combatte contro l’Angelo del Signore. Cerchiamo altrove quel che è già qui. E così facendo, ogni volta ricadiamo negli stessi atteggiamenti, in una spirale che si avvolge su se stessa. Siamo vittime del mito ottocentesco del progresso e, invece di capire che il progresso è diventare la quercia o la spiga che siamo, cerchiamo di essere altro, albero, arbusto, cespuglio. E così non ci permettiamo mai di essere quel che siamo, trascinati dai geni e dall’ambiente. Non è una questione di libertà: come ho già detto non possiamo far altro che cercare un difficile equilibrio tra la nostra libertà e il nostro destino, tra il caos e il determinismo causale. E la vera libertà non è credere di poter fare ciò che ci pare, ma quella di accettare di essere noi stessi. Non è nemmeno questione di accontentarsi: non è accontentarsi il divenire ciò che si è, ma solo accettare il nostro cammino.
Solo, in parole molto, molto povere, smettere di mentire a se stessi.